Intervista a Norman Gobbi, che ha assunto per la terza volta la Presidenza del Consiglio di Stato e intende «trasmettere una visione positiva di ciò che siamo e di ciò che abbiamo da offrire»

Incontriamo il Consigliere di Stato Norman Gobbi nel suo ufficio, a pochi giorni da un piccolo momento storico, per il Ticino e per il Dipartimento delle istituzioni: da domenica 6 aprile 2025, il nostro Cantone ha 100 Comuni. Questa pietra miliare nella politica delle aggregazioni è un tema ideale per iniziare la nostra chiacchierata.

Come ha ricordato lei stesso – in occasione di un incontro con una classe di quinta elementare, arrivata a Bellinzona per visitare Palazzo delle Orsoline – nel Ticino in cui lei è cresciuto i Comuni erano più del doppio di quelli che contiamo oggi. Che bilancio possiamo trarre riguardo a questa evoluzione, e cosa augurarci per il futuro?

«Quando all’età di 18 anni sono entrato in politica, i Comuni erano ancora 247: un numero che dal 1850 era rimasto praticamente identico. Fu proprio in quel periodo, con Alex e Luigi Pedrazzini, che cominciarono le “fusioni”, come si chiamavamo allora – ma non avrei mai pensato che in solo qualche decennio saremmo passati da quasi 250 a soli 100. Questi numeri ci dicono che il Ticino ha imboccato con decisione la strada giusta».

A proposito dei suoi esordi: lei mosse i primi passi politici in un piccolo Comune della valle Leventina, come consigliere comunale e poi municipale. Che posto era quel «Ticino dei 247 Comuni», quello in cui lei è cresciuto – e come possiamo spiegare la differenza fra quel passato e il presente ai giovani della «generazione Z», a cominciare dai suoi figli?

«Era un Ticino “più locale”, nel bene e nel male. C’erano sicuramente legami più forti fra le persone, ma eravamo anche molto legati al nostro passato e a schemi di pensiero superati. Una grande differenza è sicuramente l’influenza che hanno assunto gli eventi globali sul nostro stato d’animo: all’epoca ne sentivamo al massimo un’eco lontana, mentre oggi tutto sembra accadere appena fuori dalla nostra porta di casa. A livello personale, se ripenso a quei tempi e mi guardo oggi, sento che la passione è ancora più forte di allora – merito soprattutto dei buoni maestri che ho avuto, specialmente nei miei 12 anni in Gran Consiglio»

Nel 2008/2009, a poco più di trent’anni, proprio di quel Gran Consiglio ebbe l’onore di assumere la Presidenza, diventando un giovanissimo Primo cittadino del Cantone. Cosa ricorda di quell’esperienza?

«Mi fanno sempre sorridere gli accenni alle cose che ho fatto come “più giovane”, perché sono state tante – e soprattutto perché sono tuttora, a 14 anni dalla mia elezione, il più giovane membro del nostro Governo. Ripensando all’anno di Presidenza del Parlamento, per me fu una grande occasione di maturazione, per sfumare il mio animo da… hooligan e diventare una figura pienamente istituzionale. Di quel periodo ricordo soprattutto i tanti incontri con la popolazione di un Ticino autentico, vivace, generoso nel suo impegno civico in gruppi locali, associazioni, Patriziati e altri enti – una capacità di donare noi stessi che spesso ci dimentichiamo di vedere e di onorare come meriterebbe».

A oltre quindici anni di distanza – e occupando da ormai quattro Legislature l’altra metà di Palazzo delle Orsoline – come giudica l’evoluzione dei rapporti fra Governo e Parlamento?

«A fare la differenza sono sempre le persone, con i loro obiettivi e la loro capacità di lavorare insieme. A quel tempo il Consiglio di Stato ticinese stava vivendo un periodo molto conflittuale al suo interno, ed era spesso il Gran Consiglio a trovare la forza necessaria per collaborare: oggi, invece, viviamo una situazione quasi capovolta. Al di là di queste dinamiche, credo comunque che serva sempre la consapevolezza che tutti – in Governo e in Parlamento – siamo chiamati a metterci al servizio del vero sovrano, che è il popolo»

L’ultimo capitolo del suo lungo avvicinamento al Governo fu l’ingresso in Consiglio Nazionale, nel marzo 2010 – la brusca interruzione di quell’esperienza, vista la successiva elezione in Consiglio di Stato, ha lasciato in lei il desiderio di tornare a calcare quel palcoscenico?

«La politica federale è un’altra dimensione della nostra democrazia diretta: poterla sperimentare di persona, anche se per un breve periodo, mi ha certamente aiutato al momento di rientrare. Quello che accade in Ticino è sempre anche l’effetto, per quanto ritardato nel tempo, delle scelte che vengono prese al livello superiore. Da questo punto di vista credo ci sia qualche motivo di preoccupazione: vediamo accumularsi decisioni che tendono a svuotare il senso del nostro federalismo, con la tendenza ad accentrare poteri e compiti. La conseguenza, a livello locale, è la deresponsabilizzazione di chi eroga le prestazioni dello Stato».

Nel 2015 lei è stato candidato ufficialmente al Consiglio federale. Cosa ricorda di quell’esperienza? Le è mai capitato di invidiare il suo concorrente Guy Parmelin, poi risultato vincitore quel 9 dicembre?

«Il mio primo pensiero è che il tempo vola: sono già passati dieci anni. Il risultato di quel giorno fu una bella conferma che è possibile suscitare interesse anche senza disporre di un “network” potente a Palazzo federale, come del resto ha dimostrato qualche settimana fa anche l’elezione di Martin Pfister. Per il resto, ho la sensazione che mi sarei trovato bene al Dipartimento della difesa – e che non avrei avuto quella gran fretta di andarmene dimostrata da molti consiglieri federali, in questi ultimi decenni».

Torniamo alla politica cantonale. La terza presidenza del Governo è un traguardo che, nell’ultimo mezzo secolo di storia ticinese, hanno raggiunto pochi membri del Governo: oltre a Marco Borradori e Giuseppe Buffi, entrambi poi arrivati a quota 4, la lista comprende Renzo Respini, Luigi Pedrazzini, Marina Masoni e Manuele Bertoli. La sua lunga carriera politica si è incrociata con quasi ognuno di loro.

«Oggi è meno raro arrivare al traguardo di una terza presidenza, che tra l’altro anche il collega Claudio Zali raggiungerà nel 2026. Fra tutte le personalità elencate il pensiero va sicuramente a chi non è più con noi, e ho ricordi vividi di entrambi quei funerali di Stato – ai quali ho partecipato nel primo caso come giovane deputato, nel secondo come Consigliere di Stato. Momenti toccanti, in cui è stato evidente il coinvolgimento della popolazione e l’affetto per due grandi persone come Giuseppe Buffi e Marco Borradori».

Vale ora la pena di ripercorrere le sue precedenti esperienze alla presidenza del Consiglio di Stato, cadute in anni tutt’altro che banali. La prima, nel 2015, arrivò in un momento storico nel quale – in seguito alla votazione federale del 9 febbraio 2014, sull’iniziativa «contro l’immigrazione di massa» – in Ticino la politica discuteva soprattutto di mercato del lavoro e frontalierato.

«In quella fase storica abbiamo voluto mettere il Ticino al centro della discussione nazionale, e mi pare che l’operazione sia stata un successo. Il Consiglio federale prese sul serio le nostre preoccupazioni e si impegnò a essere molto presente a sud delle Alpi, per riallacciare il rapporto con il nostro Cantone. Uno dei frutti di quel periodo, grazie all’attenzione riservataci da Ueli Maurer, fu l’accordo sulla fiscalità dei frontalieri».

Nell’aprile del 2020, la sua seconda presidenza del Governo iniziò invece nel pieno del primo «lockdown». Per accompagnare la popolazione attraverso la pandemia, lei invitò ad assumere la postura mentale di chi affronta una camminata in montagna.

«Quella della camminata in montagna era la metafora giusta: invitava a superare la paura e a trovare la forza di andare avanti, con la consapevolezza dei rischi – da mitigare con la giusta dose di prudenza. Ricordo le conferenze stampa di quel periodo, e il grande seguito che avevano fra la popolazione – una magra consolazione, se penso a tutti gli incontri personali che invece abbiamo perso. Fra i ricordi di quel 2020 c’è poi anche quell’estate eccezionale per il nostro turismo, che vide tutta la Svizzera e gli stessi ticinesi riscoprire il nostro territorio – a causa, o per merito, della chiusura delle frontiere».

Il quinto anniversario dell’arrivo del coronavirus in Svizzera, in queste settimane, è accompagnato da alcune critiche per l’assenza di una rielaborazione critica della pandemia. Se ci confrontiamo con il resto della Svizzera, possiamo dirci soddisfatti di come le nostre autorità gestirono la crisi?

«Nella sua storia recente, il Ticino si è sempre dimostrato un laboratorio per il resto della Svizzera – ed è successo anche con il coronavirus, che ci ha toccati subito dopo la Cina e la Lombardia. La nostra posizione di frontiera ci espone da sempre a rischi accresciuti rispetto ad altre parti del Paese, ma ancora una volta siamo stati capaci di rispondere bene alla sfida. Abbiamo trovato un bilanciamento accettabile fra libertà e sicurezza, non senza un certo equilibrismo fra le rigide misure federali e la realtà del territorio. Possiamo dire di essere rimasti “elveticamente liberi”, soprattutto se richiamiamo alla mente ciò che è accaduto a pochi chilometri da noi».

Dopo questa lunga carrellata retrospettiva, parliamo di futuro. Prima di tutto: come sta il Ticino?

«Siamo abituati a parlare di questo Cantone in modo appassionato, come fanno i tifosi della loro squadra del cuore: con grande attaccamento, ma con lo sguardo che spesso ha qualche deragliamento ipercritico. La verità è che non siamo più in difficoltà di altre regioni: abbiamo potenzialità enormi, una forza di attrazione per persone e aziende che rimane intatta – e realtà nostrane innovative che, senza troppo clamore, si fanno valere nella concorrenza internazionale».

I progetti e i cantieri non mancano, ma spesso non sembra molto chiaro quali siano i fondamenti ideali sui quali il Ticino deve costruire il proprio futuro. Lei ha qualche principio che intende mettere al centro del suo anno presidenziale?

«Se fosse uno slogan, potrebbe essere “Il Ticino nel mondo, il mondo nel Ticino”. Senza negare i nostri problemi, l’idea è di trasmettere una visione positiva di ciò che siamo e di ciò che abbiamo da offrire – qualità di vita svizzera, un apparato statale efficiente, paesaggio e clima unici a livello nazionale. Molte aziende e persone, da ogni parte del pianeta, continuano a scegliere di chiamarci “casa”: faremmo bene a riconoscere, quando siamo davanti allo specchio, tutto il bello che vedono loro, quando ci guardano da fuori»

Si ritrova oggi a essere il decano del Governo, ma come dicevamo in apertura lei è vi ha fatto ingresso da giovane – quasi giovanissimo, per i parametri odierni della politica svizzera. Ha qualche idea su come (ri)accendere la passione per la politica, o anche solo per la partecipazione democratica, in una generazione di neo-cittadini che si troverà in una sempre più accentuata minoranza numerica nella nostra società?

«In un mondo in cui tanti giovani sognano di essere “influencer” digitali, la nostra democrazia diretta offre a tutti l’opportunità di essere influenti “IRL” – che, nel gergo di internet, significa “nella vita reale”. Già con un passo semplice come la firma su un’iniziativa, a partire dai 18 anni diventiamo una parte attiva del nostro sistema democratico – e possiamo far valere i nostri diritti, che non potremo mai delegare a nessun altro. Anziché restare accomodati nel ruolo di spettatori, la Svizzera ci chiede di accettare la sfida di essere giocatori, attori, protagonisti».

Intervista pubblicata sulla rivista dell’Amministrazione cantonale ArgomenTI