Saluto del Presidente del Consiglio di Stato Norman Gobbi, in occasione della Festa Nazionale, Chiasso, 1. agosto 2025
Caro Sindaco, Cari Municipali, Gentili signore, egregi signori
Amiche ed amici,
vi ringrazio di cuore per questo invito.
È un vero onore per me essere qui oggi a portarvi il mio saluto e quello del Consiglio di Stato, in un giorno che per il nostro Paese è diverso da tutti gli altri.
Essere invitati a tenere un discorso per il Primo agosto è come un regalo di Natale, per qualunque politico svizzero.
Non importa quante volte siamo invitati – l’emozione è sempre la stessa, e anche la voglia di essere all’altezza della sfida.
Questo è il momento dell’anno nel quale ci ricordiamo (anche i meno patriottici fra noi) che questo è pur sempre un Paese speciale – e che rituali civici come questa Festa nazionale fanno parte della formula di quel collante che ci tiene uniti, nonostante tutte le differenze e contraddizioni di un Paese multilingue, multiculturale e geograficamente complesso come il nostro.
Voglio quindi dirvi una volta ancora «grazie», dal profondo del cuore, per questo invito.
Il mio compito per i prossimi minuti sarà di onorarlo con qualche riflessione all’altezza di questa festa nazionale – che è sempre il giorno nel quale la Svizzera coglie l’occasione per guardarsi allo specchio, e per riflettere sull’immagine che lo specchio ci restituisce.
«Non mi parlate della Svizzera – il suo turno arriverà!».
Questa frase, lugubre e minacciosa, ha da poco compiuto ottantacinque anni. Fu pronunciata nel mese di luglio del 1940, dall’uomo che aveva ormai in pugno tutta l’Europa continentale – e si sentiva ormai sicuro che sarebbe presto riuscito a piegare anche l’ultima resistenza, invadendo la Gran Bretagna.
In quel momento niente sembrava ancora in grado di fermare la forza militare della Germania – soprattutto dopo la caduta della Francia, avvenuta al termine di un’operazione militare che aveva scioccato il mondo per la sua velocità.
Forte dei suoi alleati in Italia e in Spagna, il Reich tedesco sembrava insomma avere già chiuso la partita per il dominio del Continente.
Il suo Führer poteva quindi permettersi di rimandare più avanti nel tempo il momento in cui si sarebbe occupato della «questione svizzera» – evitando insomma di sprecare energie, in quel 1940, per combattere frontalmente un Paese piccolo ma tenace e geograficamente molto più complicato di quelli che le armate tedesche avevano affrontato fino a quel momento.
Questo era il clima politico, in quell’estate di 85 anni fa – e pur con tutte le difficoltà che noi viviamo oggi, il minimo che possiamo dire è che le cose ci stanno tutto sommato andando meglio che agli svizzeri dell’epoca…
Mettere le cose in prospettiva, come sempre, è un grande aiuto per ritrovare equilibrio nei nostri giudizi.
Tornando a quell’estate del 1940, il nostro Paese era in preda a un disorientamento molto comprensibile.
Lo stesso Consiglio federale si era fino a quel momento mostrato tentennante, e fra la popolazione si faceva largo la sensazione che non ci fosse più molto da fare. Presto o tardi, avremmo capitolato.
Una testimonianza dell’epoca riassume quello stato d’animo, a posteriori, con queste parole.
Il Paese sembrava scoraggiato, preoccupato e dava qualche segno di abbandono.
«A che scopo?» dicevano molti civili ai soldati che alloggiavano nelle loro case.
«A che serve?» chiedevano le famiglie ai militi in licenza.
«Che senso ha difendersi, visto che la guerra è già finita nei Paesi vicini? Grandi eserciti sono già stati sconfitti – e, se fossimo attaccati a nostra volta, non avremmo più alcuna possibilità di salvarci; e allora, non sarebbe il caso di evitare sacrifici inutili?»
Con un umore del genere ad aleggiare sul Paese, la capitolazione della Svizzera sembrava solo una questione di tempo.
Per nostra fortuna, però, una voce si levò sopra il rumore di fondo e si distinse per risolutezza – trovando le parole giuste per motivare alla resistenza gli ambienti militari e, più tardi, anche la popolazione.
È una storia che molti di voi ricordano sicuramente, magari dai tempi della scuola, e che nel tempo è entrata a fare parte dei nostri miti nazionali.
Con una battuta un po’ dissacrante, oggi la descriveremmo come un evento di «team building» destinato a entrare nella leggenda.
La storia è quella di un giorno come oggi, il 1. agosto del 1940, in cui il generale Guisan prese con sé circa 400 ufficiali e li portò con sé per una gita in battello sul Lago dei Quattro Cantoni, facendoli sbarcare sul praticello del Grütli.
Una volta arrivati lì, nella culla della Confederazione, il comandante dell’Esercito prese la parola per un discorso che non ci è arrivato nella sua versione originale, ma che nelle sue mille rievocazioni è stato tramandato fino a noi nel suo spirito.
Non è possibile tenere duro ripetendo a se stessi «A che serve difendersi? Qualsiasi cosa facciamo, saremo in grado di resistere solo per pochi giorni!» Parlare in questo modo significa venire meno al dovere – e significa ignorare la forza naturale del nostro Paese.
E poi, un affondo indimenticabile:
Lo dico ad alta voce, affinché lo sentano tutti oggi, su questo praticello del Grütli – affermazioni del genere sono crimini, e non avete il diritto di pronunciarle. Rimaniamo fedeli a noi stessi e alle nostre tradizioni.
La Svizzera vuole vivere la sua vita.
«La Svizzera vuole vivere la sua vita».
È un messaggio fortissimo, che non invecchierà mai – era attuale nel 1940, con la guerra mondiale letteralmente alle porte del Paese, come è attuale in questo 2025, con la sua complicata situazione geopolitica.
Non avrebbe senso negare le difficoltà del presente, o tentare di sminuirle al cospetto delle tragedie della Storia passata.
L’importante però, nonostante le difficoltà, è mantenere vivo il desiderio di restare fedeli a noi stessi, e di essere solo noi gli artefici delle nostre scelte – liberi e svizzeri.
A questo proposito, qualche mese fa ho partecipato alle commemorazioni per i 150 anni della nascita del Generale Guisan e ho scelto un passaggio di un altro suo discorso – pronunciato sempre in questo periodo ma cinque anni più tardi del precedente: nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale.
«L’immaginazione è un dono raro», disse allora il Generale ai suoi soldati, mentre li congedava dal servizio attivo: «La stragrande maggioranza del nostro popolo non sarà propensa a chiedersi, negli anni a venire… se il Paese potrebbe essere nuovamente minacciato, o come. Quello che abbiamo fatto… può sempre essere rifatto».
Questo invito a rimanere preparati, a considerare sempre «il peggio» come uno scenario possibile, dobbiamo considerarlo come il regalo di un caro amico – è un pezzo di mentalità elvetica che per decenni, in tempo di pace, non ci ha abbandonati, e che oggi siamo chiamati a riattivare per confrontarci a un mondo che non è più quello della fine del secolo scorso.
Con questa attitudine positiva, fedele al nostro ingegno e alla lungimiranza di chi ci ha preceduto, sapremo sicuramente rispondere in modo positivo alle avversità che il destino ha in serbo per il Paese – e continueremo a scrivere nuove pagine nella storia di questo Paese libero e democratico.
Se questi sono i pensieri che rivolgiamo alla Patria, nel giorno che le è dedicato, è vero che parlare di Svizzera – del nostro essere svizzeri – significa anche riflettere sulla nostra ticinesità, e sul posto che ci spetta nel contesto confederale.
Quando noi Consiglieri di Stato incontriamo ospiti che vengono dalle altre parti della Svizzera, spesso cerchiamo di spiegare loro le particolarità del Ticino spiegando che il nostro Cantone è come «un laboratorio».
Molte cose tendono a succedere prima a sud delle Alpi, anticipando dinamiche che poi interesseranno il resto del Paese.
L’esempio più clamoroso, negli ultimi anni, è stata la pandemia – con il Ticino che ha dovuto affrontare l’emergenza come prima regione svizzera, subito dopo la Lombardia.
Se questo ruolo di «laboratorio» appartiene al Ticino, nel suo rapporto con il resto della Svizzera, è altrettanto vero che il Mendrisiotto vive per certi versi una dinamica analoga, rispetto al resto del nostro Cantone.
Se il Ticino assomiglia a un cuneo di Svizzera infilato nell’Europa, e nel Nord Italia con i suoi 10 milioni di abitanti, è altrettanto vero che il Mendrisiotto è un triangolino al vertice di questo nostro cuneo.
Il rapporto con la dimensione di frontiera, che determina molte delle dinamiche che rendono unico il Ticino nel contesto svizzero, nel caso del Mendrisiotto è esasperato, nel bene e nel male.
Le dinamiche che voi conoscete, e i problemi che dovete affrontare, sono diversi da quelli di chi vive più a nord di voi – ed è giusto impegnarsi per fare in modo che siamo considerati di pertinenza di tutto il Cantone, e non di una sola regione.
Lo vediamo bene in queste settimane con la ristrutturazione della divisione Cargo di FFS, o con il dibattito sul futuro dell’autostrada – lo abbiamo visto negli ultimi anni con le discussioni sul mercato del lavoro, sui flussi migratori, sulla mobilità ferroviaria e sulla qualità dell’aria.
Ma il Mendrisiotto non è solo politica, e i temi politici non esauriscono la vivacità e l’interesse della vostra regione per il resto del Cantone.
Proprio in questo giorno di festa nazionale, l’idea che vorrei condividere con voi è che nel Mendrisiotto ci sia ancora un’energia vitale che il resto del Cantone ha spesso perduto di vista – e che sarebbe bello che ci aiutaste a reimparare.
Un paio di mesi fa il vostro redivivo Football club si è giocato la promozione in Seconda divisione.
Alla partita di spareggio che si è giocata a Sementina non è un’esagerazione dire che si è vista riunita metà della popolazione di Chiasso, sindaco compreso…
Non è una cosa che sarebbe successa per nessun’altra Città del nostro Cantone.
Non è un dettaglio, e non è solo calcio.
Il tessuto sociale del Mendrisiotto porta in sé una forza vitale vibrante, che si esprime in molti modi – dai carri allegorici per il carnevale, che ogni anno fanno ovunque incetta di premi, alle vivaci sezioni scout, dalla vita culturale alle sagre di paese, fino al panorama dei bar di quartiere.
È una forza profondamente svizzera, perché è animata dalla voglia delle singole persone di mettere a disposizione della collettività il meglio che hanno – il loro tempo, le loro energie, la loro esperienza e anche, perché no, un po’ del loro denaro.
In queste espressioni della vita comunitaria vediamo l’anima dello spirito di milizia che è all’opera in ogni elemento dell’identità svizzera – dalla politica all’esercito, dallo sport alla cultura.
Per i prossimi mesi e anni, auguro quindi con tutto il cuore al Mendrisiotto di conservare questa forza, fatta di persone e gruppi in cui queste persone si riuniscono per lavorare insieme.
E vi auguro anche di riuscire a esportare, a tutto il resto del nostro Cantone, un po’ di questa energia – per riscoprirci davvero comunità, e per mettere a frutto tutto il bello e il buono che c’è in Ticino.
Siamo un pezzo della Svizzera, felice di essere Svizzera.
Ma siamo anche e prima di tutto un Cantone magnifico, fatto di persone magnifiche.
Un Cantone che ha davanti a sé un futuro radioso, se tutti insieme continueremo ad aiutarci a vicenda a costruire ciò che va costruito, a migliorare ciò che va migliorato, e a riparare ciò che va riparato.
Grazie a tutti per la vostra presenza a questa festa nazionale.
Viva la Svizzera, viva il Ticino – e viva il Mendrisiotto!
Norman Gobbi