La verità non è razzista

La verità non è razzista

Norman Gobbi commenta la decisione della Commissione giuridica del Consiglio Nazionale di cassare l’obbligo di comunicare la nazionalità nei reati

La recente decisione della Commissione giuridica del Consiglio nazionale svizzero di respingere l’iniziativa parlamentare che proponeva di obbligare le forze dell’ordine a comunicare pubblicamente età, sesso e nazionalità di autori, sospettati e vittime di reati rappresenta un caso emblematico di manipolazione paternalistica dell’informazione.
La motivazione del rifiuto si basa sulla volontà di evitare che la divulgazione di dati demografici possa alimentare stereotipi e pregiudizi nella popolazione. ”In superficie, questa argomentazione appare nobile e progressista, tuttavia nasconde un pregiudizio ben più profondo e preoccupante: l’idea che i cittadini non siano intellettualmente capaci di processare informazioni complete senza cadere automaticamente in derive discriminatorie”, esordisce Norman Gobbi, che sottolinea come “questa logica implica che le autorità debbano fungere da filtro protettivo, decidendo quali informazioni i cittadini possano o non possano gestire responsabilmente. È una forma di paternalismo istituzionale che considera la popolazione incapace di discernimento critico”.

Quando le istituzioni decidono di omettere sistematicamente determinati dati, non eliminano i pregiudizi: li spostano semplicemente dal piano della realtà verificabile a quello della speculazione incontrollata. “L’assenza di informazioni ufficiali crea un vuoto che viene inevitabilmente riempito da supposizioni, voci e narrazioni non verificate, spesso più distorte della realtà stessa. La mancanza di trasparenza genera inoltre sospetto verso le istituzioni. Quando i cittadini percepiscono che vengono loro nascoste informazioni, tendono a immaginare scenari peggiori di quelli reali, alimentando teorie cospirative e sfiducia sistemica”, continua il Consigliere di Stato .

Una democrazia matura si fonda sul presupposto che i cittadini siano in grado di valutare informazioni complete e formarsi opinioni autonome. Per il Consigliere di Stato, “il compito delle istituzioni deve essere quello di fornire dati accurati e contesto interpretativo, non di pre-selezionare quali verità i cittadini possano sopportare. La lotta ai pregiudizi non si vince nascondendo la realtà, ma educando al pensiero critico e fornendo strumenti per interpretare correttamente i dati”.

Per Gobbi, la decisione della Commissione rivela una concezione elitaria della gestione dell’informazione pubblica: “esperti e politici decidono cosa il popolo può sapere, assumendo di possedere una saggezza superiore nel valutare le conseguenze sociali della trasparenza. Questo approccio non solo infantilizza i cittadini, ma sottrae loro uno strumento fondamentale di controllo democratico: la possibilità di valutare autonomamente l’operato delle forze dell’ordine e l’andamento della criminalità nel proprio territorio”.

Paradossalmente, la decisione che si proponeva di combattere i pregiudizi si basa sul pregiudizio più grave di tutti: quello secondo cui i cittadini non meritano fiducia nel gestire informazioni complete sulla realtà che li circonda. Una democrazia che protegge i propri cittadini dalla verità non può dirsi vera Democrazia”, conclude Gobbi.

Articolo pubblicato nell’edizione di domenica 13 luglio 2025 de Il Mattino della domenica