I 50 anni della Stampa

I 50 anni della Stampa

Intervista pubblicata nell’edizione di venerdì 14 settembre 2018 del Corriere del Ticino

«Basta un’evasione e l’intero sistema è fallito»

Intervista a tutto campo con il direttore Stefano Laffranchini: la gestione dei carcerati, il rischio corruzione e quella casetta dell’amore per i detenuti

Il penitenziario della Stampa compie 50 anni. Inaugurata nell’agosto del 1968, la struttura è stata messa a dura prova negli ultimi anni: se nel 2016 in Ticino le giornate di incarcerazione sono state 82 mila, nel 2017 sono salite a 87 mila. Ma com’è cambiata nel tempo la gestione dei detenuti e soprattutto, qual è lo stato di salute delle nostre carceri? 

Qual è lo stato di salute delle carceri ticinesi?
«In generale buono: nel 1968 la Stampa è stata costruita in maniera intelligente, con piani e sezioni indipendenti. Una modalità che ci consente di gestire al meglio la popolazione carceraria. D’altra parte però abbiamo un problema di posti, come pure di obsolescenza della struttura. Ma ci stiamo lavorando».

Il problema del sovraffollamento è annoso. Ma sono i criminali che crescono o è la durata delle pene che si allunga?
«Direi che il sistema è diventato più performante. Basta leggere la cronaca di tutti i giorni: è raro che gli autori di un crimine non vengano presi. Accanto a questa maggiore efficienza dell’apparato di sicurezza occorre però considerare che almeno l’80% della popolazione carceraria in Ticino è straniera. E questo significa che difficilmente potrà beneficiare della liberazione condizionale. Mi spiego meglio: per poterne usufruire il detenuto non deve in particolare presentare un rischio di fuga. Evidentemente, se non ha legami sul territorio è difficile che venga concessa. Di conseguenza i detenuti che devono scontare l’intera pena alla Stampa sono la maggior parte, incidendo così sull’occupazione».

Quando si parla di sicurezza delle carceri il pensiero corre agli agenti di custodia. Come siamo messi in termini di effettivi?
«In generale, posso affermare che grazie alla spinta del capo Dipartimento, recentemente il Consiglio di Stato ha deciso di rivedere il numero degli agenti verso l’alto. All’ultimo concorso aperto, per 14 posti liberi si sono candidati in 102. Quindi direi che l’interesse per la professione c’è».

Ci racconta che carcere ha trovato al suo arrivo?
«Dal 2014, anno della mia entrata un funzione, gli interventi sono stati molti: ad esempio, in termini organizzativi sono stati rivisti l’organigramma e i flussi di lavoro. Allo stesso tempo, sono stati creati nuovi servizi come quello del trasporto dei detenuti o di intervento in caso di carcerati problematici. Insomma, non siamo rimasti con le mani in mano».

Torniamo ai 50 anni della Stampa. In mezzo secolo, com’è cambiata la gestione dei detenuti?
«È cambiata tantissimo. Basta solo pensare che una volta c’erano solo due sezioni: una per i detenuti recidivi e una per quelli alla prima incarcerazione. Oggigiorno, questa separazione ha lasciato spazio a un altro tipo di suddivisione che avviene anche dal profilo etnico e culturale dei detenuti. Mentre per quel che concerne il reato commesso non vi sono suddivisioni. Questo, ad eccezione degli autori di reati contro l’integrità sessuale, raggruppati in un’unica sezione».

Restiamo sui detenuti, come si svolge una giornata-tipo per un carcerato?
«È molto semplice: in un giorno infrasettimanale il detenuto si sveglia alle 7 e dopo la colazione viene messo al lavoro per 3 ore. Al termine, hanno 45 minuti di tempo libero prima del pranzo in cella. E il pomeriggio si riprende: 3 ore di lavoro e 45 minuti di tempo libero prima della cena. Solo che la sera c’è la possibilità di mangiare in cella o, a gruppi di 15, di cenare in una piccola cucina in compagnia. Mentre alle 21 scatta la chiusura in cella. Rispettivamente, nei festivi al posto delle ore di lavoro i detenuti hanno delle ore libere dove possono andare in palestra o svolgere altre attività».

Ma in media quanto costa la detenzione di un uomo in un anno?
«Il costo è di circa 270 franchi a detenuto. Una cifra questa leggermente inferiore agli altri cantoni, anzitutto considerando il costo differente relativo alle risorse umano, per rapporto ad altri cantoni svizzeri, come accade spesso in altre professioni».

In settimana i detenuti lavorano quindi sei ore al giorno. Che tipo di attività svolgono?
«Innanzitutto va detto che l’obiettivo è il reinserimento sociale del detenuto. Per rispondere alla sua domanda invece, come possibilità di lavoro abbiamo una falegnameria, una legatoria, una stamperia, assembliamo dei giocattoli e stampiamo le targhe per le automobili immatricolate in Ticino. Ma non solo. Accanto a queste mansioni abbiamo i laboratori di servizi interni: ovvero cucina, lavanderia e stireria. Inoltre sui piani sono occupati 12 detenuti che, in gergo, vengono chiamati gli “scopini” e si occupano delle pulizie come pure dell’ordine – inteso non come sicurezza ma dal profilo della gestione delle telefonate e via dicendo – del piano».

Ma come viene vista la figura dello scopino che, pur essendo un detenuto, ha questo tipo di controllo?
«Come una figura autorevole e rispettata. A dispetto del termine che può sembrare riduttivo, si tratta di un posto di responsabilità».

Quanti sono i carcerati che lavorano alla Stampa? Ricevono un compenso?
«All’incirca lavorano in 130 e vengono remunerati con al massimo 3,50 franchi all’ora. Al giorno, guadagnano dunque fino a 33 franchi di cui 8 vengono trattenuti per il loro sostentamento. Bisogna capire che nel contesto delle strutture carcerarie dal profilo oggettivo 8 franchi sono pochi ma, da un punto di vista soggettivo, è una somma importante. Insomma, è un gesto educativo. Inoltre, dell’importo totale il 15% viene bloccato fino alla scarcerazione del detenuto mentre il 20% è utilizzato per pagare eventuali spese mediche non coperte dalla LaMal. Quello che rimane è a disposizione del detenuto che può utilizzarlo come aiuto alla famiglia, per acquisti nel nostro negozietto interno oppure ancora per telefonare a casa. Allo stesso tempo, sempre in un’ottica di responsabilizzazione, se il detenuto vuole la televisione la paga. Un franco al giorno».

La domanda qui sorge spontanea. Che tipo di film possono guardare i detenuti?
«Partendo dal presupposto che la missione del carcere è la risocializzazione teniamo evidentemente sotto controllo la situazione ponendo una serie di limitazioni. Di principio è vietata la visione di filmati pornografici. Senza voler essere moralisti a tutti i costi bisogna considerare che vi sono persone in detenzione per aver commesso aggressioni sulle donne e questo genere di filmati non aiutano il percorso rieducativo».

Restiamo sul tema: come risponderebbe a chi critica i presunti privilegi di cui godrebbero i detenuti?
«Semplice, ho deciso di non rispondere più. Perché la verità è che c’è una percezione bivalente del carcere: da un lato, una fetta dell’opinione pubblica è convinta che vessiamo i detenuti nei modi più disparati. Dall’altro, c’è chi ci vede come un carcere a 5 stelle. In tal senso passo dal dovermi giustificare sul perché nel menu proponiamo cibo vegetariano ma non vegano, urtando magari la sensibilità di qualcuno, al rendere conto del perché una volta all’anno si organizza un piccolo concertino in favore dei detenuti. Insomma, da qualsiasi parte la si guardi, ci sarà sempre qualcuno critico. Alla fine ho quindi deciso di non giustificarmi più. Io devo svolgere il mio lavoro e fare il possibile per favorire il percorso di risocializzazione del detenuto, senza fare sconti nel caso in cui non vengano rispettate le regole».

Vi sono già stati casi di corruzione presso le strutture carcerarie che dirige?
«In generale va detto che c’è stato, e potenzialmente c’è, questo problema anche presso le strutture carcerarie cantonali. Tuttavia ritengo che rispetto ai miei omologhi, e penso in particolar modo alla vicina Penisola, ho un vantaggio: ovvero quello di dirigere una struttura di dimensioni “ridotte” dove il numero di detenuti non supera le 280 unità. C’è quindi un divario importante con le prigioni lombarde dove, invece, si contano 1.500 detenuti. In tal senso va da sé che un numero maggiore di detenuti significa disporre di più personale e di conseguenza conoscere tutti non è semplice. In Ticino, le strutture carcerarie contano 160 collaboratori, mi è dunque molto più facile instaurare un rapporto personale con ciascuno di loro e percepire se c’è qualcosa che non va. Un caso di corruzione, nella storia della Stampa, in effetti c’è stato. I fatti del 1992 – quando alcuni detenuti sono evasi muniti di armi che erano state fornite proprio da un collaboratore – sono ben impressi nella memoria di tutti. Oggi la guardia resta alta per evitare che fatti simili possano succedere nuovamente. Perché basta un’evasione e il sistema carcerario è fallito. Ecco perché non abbassiamo mai la vigilanza. In tal senso, oltre al rapporto di fiducia con i singoli agenti sono state attuate una serie di azioni preventive: penso ad esempio ai controlli a sorpresa sul personale in entrata, sottoscritto compreso».

Cambiamo tema. In 50 anni il crimine è evoluto e oggi si parla sempre di più della radicalizzazione. Quanto la preoccupa il proselitismo nelle carceri?
«Va detto che il carcere è uno specchio del territorio. Il problema della radicalizzazione è molto sentito in Italia e in Francia ma meno, per il momento, in Svizzera e in Ticino. Alla Stampa abbiamo avuto un caso di detenuto radicalizzato, e abbiamo adottato tutte le misure del caso per evitare che influenzasse altri detenuti».

Ad esempio?
«Per ovvie ragioni di sicurezza, non posso esprimermi al riguardo. Di campanelli d’allarme a cui prestare attenzione per combattere il proselitismo ce ne sono ma non sono sempre facilissimi da cogliere. In tal senso, la prossimità degli agenti di custodia è decisiva come pure l’osservazione di piccoli segnali come la banalità di farsi crescere la barba, di chiedere un tappetino per la preghiera o seguire il Ramadan. Evitiamo fraintendimenti: non sto dicendo che tutti i musulmani praticanti sono radicalizzati, semplicemente che ci sono dei piccoli segnali a cui dobbiamo prestare attenzione. Ma a giocare un ruolo sono anche i detenuti stessi che possono segnalare eventuali comportamenti sospetti. In media, il 15% dei detenuti oggi è di fede musulmana».

Ampliando invece lo sguardo, qual è la principale difficoltà nella gestione di un carcere?
«Probabilmente sto per dare la risposta meno prevedibile in assoluto. Ma la difficoltà più grande che ho non è dettata dal carcere in quanto tale ma piuttosto da una questione organizzativa. Il penitenziario cantonale infatti fa parte dell’Amministrazione cantonale e quindi deve sottostare a iter e procedure stabilite, soprattutto per quel che riguarda l’aspetto finanziario. La mia aspettativa al momento di assumere questa carica era quella di essere direttore del carcere con tutta l’autonomia che questo comporta. In altre parole avere un budget all’inizio dell’anno da poter gestire al meglio nel corso dei mesi. Ma così non è. Fortunatamente posso contare sulla sensibilità e l’appoggio del direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi. A volte però sono davvero sorpreso dei tempi dell’apparato statale per ottenere le risorse materiali di cui necessito per la gestione ottimale della struttura».

Un’ultima domanda: le è già successo che un detenuto si togliesse la vita?
«È capitato una volta in quattro anni. Si tratta di una singola volta che però ha lasciato il segno ma anche sul personale che intrattiene rapporti umani con queste persone. È la cosa peggiore che possa succedere. Non da ultimo perché, in veste di direttore, significa che ho disatteso la mia missione. Ogni decesso, per me, è un fallimento».

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