La Città Ticino quale luogo di incontro

La Città Ticino quale luogo di incontro

Vi ringrazio per l’invito a partecipare ancora una volta a un dibattito così importante. Per parlare di integrazione oggi farò riferimento a una città che negli ultimi anni ha continuato a ridefinirsi: Lugano. Una nuova Città, dapprima polo urbano e finanziario, poi nel 2004 con l’unione di Gandria, Città di frontiera, ed ora anche Comune almeno in parte di Valle, con le ultime aggregazioni. Un esempio dove aggregare significa garantire nuove opportunità di sviluppo alle periferie e quindi integrazione di più identità territoriali e culturali.

A fine 2013 gli abitanti di Lugano erano 67’200, di cui 38% stranieri. Questi dati propongono un momento di riflessione sui fenomeni migratori, in particolare quelli legati al mondo del lavoro e al processo di integrazione. I Comuni, che è bene ricordarlo sono i primi ad accogliere i nuovi arrivati, hanno un’importante responsabilità: attuare le pari opportunità, contemplare la pluralità migratoria, sfruttare il potenziale a disposizione ed esigere la responsabilità personale di ciascuno. Questi sono anche i principi di base del Piano di integrazione cantonale 2014 – 2017, che, come già più volte ribadito in altri incontri, costituisce un segno chiaro, inconfutabile e tangibile della volontà e dell’impegno del Ticino nel rispondere ai propri compiti istituzionali in materia di promozione dell’integrazione.

Quando si parla di integrazione è bene però non pensare solo alla difficoltà dello straniero. Oggi anche gli indigeni si trovano a dover affrontare dei cambiamenti a causa della crisi economica.

Già nel XIX e XX secolo avvenne il passaggio dalla vita rurale alla vita urbana, vista come luogo di nuove opportunità. La differenza di vita era totale, i ritmi del lavoro completamente diversi, e le relazioni sociali sempre più complesse ed ampie. La Storia è fatta di flussi e riflussi. Il destino volle che proprio queste terre, che furono incapaci di sfamare i propri figli nel passato, seppero offrire opportunità di lavoro a nuovi migranti. Negli Anni Cinquanta, grazie alle grandi opere, migliaia di persone di origine italiana emigrarono e lavorarono. Parallelamente si svilupparono attività industriali nelle Valli, realtà che diedero lavoro a migliaia di operai ticinesi, svizzeri e italiani di diverse regioni.

La mia esperienza personale è caratterizzata da ricordi piacevoli legati allo sviluppo e alla vitalità proprio di una valle che negli anni Settanta e Ottanta era quasi “il centro del mondo”. Sono cresciuto in quello che ho già definito il “microcosmo” di Piotta, che potrà sembrare un banale villaggio di periferia, ma che ha in sé tutti gli elementi di un piccolo cosmo della nostra grande società, e ve lo spiego con alcuni semplici esempi. Dopo l’arrivo di bergamaschi e bresciani negli Anni Cinquanta, arrivarono negli Anni Sessanta e Settanta i meridionali, seguiti poi dai balcanici negli Ottanta e Novanta. Oggi, con i flussi migratori dell’asilo in crescita, Piotta ospita diversi richiedenti l’asilo di origine africana e mediorientale. Ci rendiamo quindi conto come il microcosmo sia effettivamente tale, anche per gli effetti di questi variegati flussi migratori. A scuola la componente migratoria era ed è assai presente. Un ambito in cui il contatto e il dialogo avviene in maniera naturale, tra autoctoni e nuovi arrivati. Lo stesso avviene nel mondo dello sport, chiamato a fungere da spontaneo strumento d’integrazione.

Il nostro Cantone si è trasformato in poco più di 150 anni in terra capace di offrire lavoro ai propri residenti e a diverse migliaia di lavoratori stranieri, questo senza negare qualche problema di relazione tra le parti. Una relazione che oggi si vede confrontata anche con la crisi economica e con una sempre maggiore difficoltà nell’accesso al mondo del lavoro, sia per i migranti, sia anche per i residenti, perdendo quindi il migliore strumento di integrazione qual è, appunto, il lavoro.

Il bisogno di appartenenza a una collettività caratterizza la società. Diventando sempre più eterogenee per provenienza, lingua e cultura, le città svizzere affrontano nuove sfide sociali e urbane. Alla luce delle fusioni dei Comuni promosse sul piano cantonale, dobbiamo ormai parlare di un’unica futura Città Ticino, sviluppando una riorganizzazione della geografia sociale.

Le aggregazioni comunali sono uno dei progetti più importanti avviati nel corso degli ultimi anni dal nostro Cantone ed hanno sin qui comportato una riduzione significativa del numero dei Comuni, passati da 247 a 135. Nel mese di maggio si è conclusa la consultazione sulla prima fase  del  progetto  del  Piano  cantonale  delle  aggregazioni. Le risposte sono state di tenore diverso, dall’adesione incondizionata con l’invito ad accelerare il processo, alla determinata e risoluta opposizione al progetto, passando attraverso un’ampia gamma di sfumature, riserve e condizioni, ma, permettetemi di parlarne con orgoglio, il 60% dei Comuni si è detto a favore del progetto. Aggregazioni istituzionali che comportano uno sforzo parallelo di integrazione sociale. Come l’Agorà un tempo era lo spazio comune che dava agli abitanti la coscienza di essere “cittadini”, lo spazio sociale dove ci si riuniva e si comunicava, la futura Città Ticino sarà la nuova comunità, basata su un’identità territoriale per creare efficaci sistemi di relazione e di scambio che permetteranno di condividere progetti e affrontare le sfide a livello internazionale, dove la “purezza” della vita rurale da una parte e, dall’altro, la vita moderna della città, convivranno e si integreranno.

Il primo problema della nostra vita attuale è comunicare gli uni con gli altri: bisogna ritrovare il senso della corrente collettiva. Mai come in questi ultimi anni si è parlato di comunicazione e di interattività, e mai come a partire dalla seconda metà del XX secolo si è tanto sentito parlare anche di solitudine e di isolamento.

L’angoscia dell’uomo sempre più solo a causa dei trasferimenti, degli sradicamenti, della crisi della famiglia e delle piccole comunità alle quali apparteneva un tempo, affiora un po’ dappertutto. Molti di noi scelgono di vivere in grandi centri proprio per avere maggiori contatti, in sostanza per sentirsi meno soli ed isolati. Allo stesso tempo temiamo che i nostri spazi vengano invasi, temiamo che il nostro essere venga messo a nudo attraverso domande e curiosità, che rientrano in quello che dovrebbe essere un normale approccio per dare inizio ad una conoscenza più approfondita. Il fatto è che ogni conoscenza più approfondita porta via tempo prezioso nell’ambito della nostra frenetica quotidianità, per cui ci costringiamo ad una selezione delle energie da destinare che frequentemente porta a tralasciare l’approfondimento dei rapporti.

Proprio in tale contesto si inserisce l’uso spesso eccessivo delle tecnologie. Tante persone, soprattutto giovani, trascorrono ore davanti allo schermo di un computer o con lo smartphone. Si tratta spesso di una comunicazione falsa e mascherata, che rischia di favorire l’isolamento e l’incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri. La società e la famiglia non sempre costituiscono saldi punti di riferimento.

La condizione dell’uomo moderno mi ricorda le bellissime parole scritte da Michel Foucault nella descrizione della Narrenschiff di Brant: “Prigioniero della nave da cui non si evade, l’uomo è affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, alla grande incertezza esteriore del tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade, solidamente incatenato all’infinito crocevia. E’ il passeggero per eccellenza e cioè il prigioniero del passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come quando, messo piede a terra, non si sa da quale provenga. Egli non ha verità né patria se non in quella distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli”.

La solitudine non ha età, non ha condizione sociale e non ha cittadinanza, come non ha uno specifico territorio. Per reagire occorre un lungo e costante lavoro culturale che ponga al centro della Società la persona umana e che promuova una cultura dell’Essere, anche attraverso la riscoperta del senso della storia, della tradizione e della continuità e il recupero del rispetto per i valori che contano.

La voglia di comunicare ed essere capiti è insita in ognuno di noi. Avere la voglia di esprimere qualcosa verso gli altri, integrarsi quindi, è una necessità naturale e indispensabile.

Vi ringrazio dell’attenzione.

 

Discorso pronunciato dal Consigliere di Stato Norman Gobbi, Direttore del Dipartimento delle istituzioni in occasione dell’Incontro informativo sull’integrazione degli stranieri
25 settembre 2014 – Paradiso

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