“Le aggregazioni: successo e rammarico”

“Le aggregazioni: successo e rammarico”

Intervista apparsa nell’edizione di martedì 27 marzo 2018 del Corriere del Ticino

Elio Genazzi si appresta a lasciare la guida della Sezione degli enti locali per passare al beneficio della pensione. Lo abbiamo incontrato per un bilancio della sua attività dal 2006. Genazzi parla a ruota libera dei Comuni, delle aggregazioni, di Ticino 2020, ma anche dei suoi due direttori: prima Luigi Pedrazzini, poi Norman Gobbi.

Il 1. aprile (e non è uno scherzo) passerà al beneficio della pensione. È pronto per il passaggio delle consegne?
“Il tempo trascorre inesorabile e anche per me, senza quasi nemmeno accorgermene, è giunto il momento di staccare. Con la pubblicazione del concorso per il mio successore si è aperta una fase di transizione, una scintilla che mi ha permesso di riflettere davvero sul mio nuovo futuro. Se la salute me lo concederà, vorrei tornare a fare qualcosa, questa volta da gregario, per la mia valle – la Vallemaggia – cui devo molto. Ma sarà anche il tempo di godermi qualche momento in più con la mia famiglia e, soprattutto, con i miei nipotini”.

Aveva assunto la guida della Sezione degli enti locali nel 2006. Quanto è cambiato il Comune ticinese in genere da allora?
“Il Comune ticinese è cambiato molto e le trasformazioni sono tuttora in corso. L’evoluzione è stata favorita dalla politica, ma è altresì conseguenza dei mutamenti sociali, economici e anche infrastrutturali. Le aggregazioni comunali hanno segnato la via e preparato il Cantone alle nuove sfide: AlpTransit, LAC, Palacinema fino al rilancio delle periferie. L’organizzazione comunale, rimasta praticamente immutata sin dall’Ottocento, ha vissuto un vero mutamento, necessario per adattarsi alle nuove esigenze della popolazione ticinese. Per alcuni – pochi a dire il vero – è stato uno sgarbo al passato. Ma a loro rispondo che si è trattato di un atto di responsabilità per il Ticino delle future generazioni”.

Lei arrivava dal privato, titolare di uno studio di ingegneria. Come mai l’idea di lanciarsi in quel nuovo compito?
“Una scelta sino a quel momento inimmaginabile, ma non casuale. Accanto all’attività d’ingegnere svolta per 27 anni, fonte d’importanti sacrifici ma anche di altrettante soddisfazioni, ho sempre coltivato la passione per la cosa pubblica. Grazie alle nozioni di civica apprese sui banchi della Scuola maggiore (tempi in cui la materia non appariva ancora un tabù), ho subito scoperto dentro di me un forte senso civico. Dopo essere stato attivo in alcune associazioni di valle, l’entrata nel Municipio di Maggia (nel 1988) e gli otto anni da sindaco hanno rappresentato la mia prima vera palestra istituzionale, cui ne sono seguite altre. L’esperienza maturata e il desiderio di vivere una nuova avventura mi hanno condotto alla scelta di cui non mi sono mai pentito”.

All’epoca era anche parlamentare. Fu difficile lasciare?
“Nel 1992, con grande onore, assunsi la carica di granconsigliere. Un’esperienza impegnativa ma gratificante, che mi ha permesso di conoscere e ispirarmi a personalità illustri. Lasciare il Parlamento dopo 15 anni – la mia esperienza si sarebbe comunque conclusa l’anno successivo – non mi è pesato. Il compito che andavo ad assumere mi ha permesso – e così è stato – di mantenere uno stretto contatto con l’attività parlamentare. Una nuova veste più affine alla mia stessa indole, volta a preferire ai giochi politici, gli interessi del cittadino”.

Si dice che chi è stato in politica e poi la osserva dall’esterno abbia la visione più chiara e nitida di quanto accade. Cos’è cambiato in questi 12 anni?
“La politica rispecchia umori ed esigenze di una società che, malgrado la salute dell’economia e una protezione sociale solida, è divenuta più fragile e complessa rispetto al passato: un contesto che si ripercuote inevitabilmente sulla strategia dei partiti. Ai tempi le trasversalità erano piuttosto limitate agli interessi dei Comuni, difesi dal cosiddetto “Partito dei sindaci”, o delle periferie che riuscivano immancabilmente a raccogliere il sostegno del resto dell’emiciclo. Oggi la trasversalità abbraccia temi sociali, economici e ambientali, spingendo i partiti a sacrificare la propria identità sull’altare del successo elettorale. Tuttavia ciò non ha avvicinato le parti alla ricerca di soluzioni convergenti e risolutorie, poiché la politica “urlata” – che corre sul web e sconfina in Parlamento – si contrappone alla progettualità e alla mediazione, che hanno sin qui consentito di raggiungere grandi traguardi”.

Veniamo al processo delle aggregazioni. Qual è stato il progetto che ha creato maggiori attriti e tensioni?
“In ogni progetto aggregativo si celano delle insidie. La chiave sta nello spiegare alla gente, cosa non sempre evidente, che gli aspetti positivi della scelta prevalgono su quelli negativi. Vero, il Comune è il livello istituzionale più prossimo al cittadino ed è inevitabile che gli aspetti affettivi ed emozionali vengano a galla, anche scaltramente. Ma se ci si convince dei vantaggi concreti, si accantonano gli attriti e le tensioni. In certi casi non ci siamo purtroppo riusciti, ma a prevalere è comunque stato – com’è giusto che sia – il processo democratico. Su tutti il rammarico maggiore è stato di non essere riusciti a convincere il Locarnese sulla necessità di una sua riorganizzazione”.

E quale quello al quale oggi guarda con orgoglio come esempio d’esercizio ben riuscito?
“Per dimensione, ma soprattutto considerando le reticenze iniziali, penso alla nascita della nuova Bellinzona. Una realtà ancora in fase di assestamento, che richiederà importanti sforzi agli attuali amministratori, ma che il tempo consacrerà come una scelta vincente anche per il Cantone. Guardo però con altrettanto orgoglio quelle realtà di periferia che, grazie alla lungimiranza dei propri Cittadini, per prime hanno creduto nelle aggregazioni, indicando la via al resto del Cantone”.

Qual è il progetto che lascia in eredità al suo successore e al quale tiene in maniera particolare?
“Malgrado le criticità emerse recentemente, il cantiere più importante permane senza dubbio quello della riforma Ticino 2020. Un progetto il cui beneficiario, è bene ricordarlo, non è né il Cantone né i Comuni, bensì il cittadino. Sono sicuro che sia Governo sia rappresentanti dei Comuni, dopo aver registrato in passato troppi fallimenti su tale fronte, sappiano riportare il progetto sui giusti binari. C’è stato un lungo lavoro preparatorio per costruire un progetto solido e un clima positivo fra gli attori in gioco. È perciò indispensabile trovare delle soluzioni moderne, che aiutino i Comuni a riacquistare una vera autonomia e il Cantone a bloccare la centralizzazione dei compiti onde mantenere sani i principi fondanti del federalismo, fiore all’occhiello della nostra organizzazione istituzionale”.

Lei ha pure vissuto un cambio della direzione del Dipartimento delle istituzioni. Dal PPD (come lei) Luigi Pedrazzini al leghista Norman Gobbi. Quale il principale cambiamento?
“Sono due personalità assai diverse, che tuttavia hanno sempre mostrato una particolare sensibilità per le zone periferiche. Le Valli, infatti, non possono divenire dei musei a cielo aperto: occorre farle vivere. Ho potuto osservare, con soddisfazione, come le politiche dipartimentali abbiano sempre tenuto conto delle esigenze dei territori più discosti, pur nel rispetto dell’interesse dell’intero Cantone. Forse l’ex consigliere di Stato era più incline alla concertazione, mentre l’attuale possiede una trazione decisionale che ricalca maggiormente la volontà dipartimentale. Ad ogni modo, sono riconoscente a entrambi per questi anni di lavoro di squadra e per la fiducia che non ho mai sentito mancare”.

Si dice che Gobbi sia un direttore molto presente ed esigente con i suoi collaboratori. A volte magari anche un po’ invadente?
“Come detto, è un consigliere di Stato che ha una propria impronta politica e che dalla sua elezione ha saputo orientare in tal senso i suoi collaboratori. Non la concepirei come un’invasione, anche perché a essere eletto – e a godere del sostegno così come delle aspettative dei cittadini – è il direttore di Dipartimento e non i funzionari”.

Dire Sezione degli enti locali significa anche parlare di problemi e attriti con i Comuni e alcuni amministratori. Qual è stata la situazione che ha creato grosse difficoltà?
“Ci sono stati Comuni che hanno manifestato evidenti difficoltà, sia sul piano amministrativo sia politico. Occorreva recuperare ritardi che azzoppavano la macchina comunale e scalfivano seriamente la sua efficienza, a scapito anche dei servizi offerti. Dopodiché ci sono state situazioni su cui si sono accesi insistenti riflettori mediatici su singole persone, che hanno recato pregiudizio all’immagine del Comune e di riflesso alla credibilità delle istituzioni. Episodi difficili che per fortuna sono stati risolti, grazie all’intervento del Cantone ma anche alla propositività e all’etica pubblica che, per fortuna, ancora caratterizza la stragrande maggioranza degli amministratori locali”.

C’è chi negli anni avrebbe voluto dalla vostra sezione anche interventi più decisi e profilati nei confronti di chi aveva compiuto scivoloni. Condivide la critica?
“È una critica comprensibile, anche perché oggi piace lanciare i famosi “segnali”. Talvolta gli interventi potevano mostrarsi più autoritari, ma abbiamo sempre preferito risolvere i problemi alla radice, intervenendo appena possibile e, soprattutto, cercando ripristinare prima possibile la corretta funzionalità degli enti locali. Ben consapevoli della centralità dell’interesse collettivo, il cui primo custode è, e rimarrà, il Comune”.

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