“In carcere accadono cose e vi sono regole che al di fuori appaiono incomprensibili”. A raccontarlo a “Solo” è stato Stefano Laffranchini, direttore delle strutture carcerarie ticinesi. Per esempio, ha continuato, “le persone detenute non possono studiare gli atti processuali nelle proprie celle, ma solo in spazi appositi e in determinati orari”. Una regola presa “per evitare che i co-detenuti vogliano leggere quanto detto in fase d’inchiesta”. Dinamiche, queste, “che non piacciono ai patrocinatori delle persone incarcerate, che scrivono lettere ed e-mail affermando che io violerei i diritti fondamentali dei loro assistiti”.
La comunicazione dietro alle sbarre
Una volta entrate in prigione le persone vengono private della libertà di movimento, ma anche di quella di comunicare. Come avviene quindi il dialogo tra detenuto e mondo esterno? “Nel carcere giudiziario, dove si trovano le persone in attesa di giudizio, non possono comunicare perché potrebbero inquinare le prove. In quello penale, invece, possono farlo tramite delle cabine telefoniche o le visite, ma non hanno diritto ad avere uno smartphone”. Il motivo? “Per evitare che qualcuno possa proseguire con un traffico illecito gestito dal carcere, ma anche perché tra applicazioni, fotocamera e videocamera ci sarebbe un aiuto per chi fosse intenzionato a evadere”.
Tra lettere e censura
Basta pensare a un film con protagonista un detenuto e subito viene in mente la lettera scritta al mondo esterno o ricevuta in cella. “Il sistema delle lettere è ancora molto usato”, spiega Laffranchini, aggiungendo che “in carcere c’è un Ufficio censura che evita la trasmissione di informazioni confidenziali e controlla che non vengano introdotte sostanze stupefacenti”. Un compito “importante” che i collaboratori del direttore “svolgono in modo serio e discreto”, ma che resta pur sempre “un’invasione della privacy”. Per questo Laffranchini “preferisce astenersi dal leggere queste missive”.
Il “problema” dei giornali
I detenuti hanno accesso “alla televisione, per cui pagano un abbonamento, così come a libri e giornali”. In questi ultimi, però, c’è quello che il direttore definisce “un problema”. Un detenuto “ha tutto il diritto di non dire quello che ha fatto, se non durante un percorso terapeutico. Però non può astenersi dal farlo, perché gli altri detenuti sanno quando va a processo e leggendo i giornali possono conoscere i vari dettagli”.
Le serie-tv “sono orribili”
In molti avranno visto “Prison Break”, Orange is the new black” oppure “Oz”. Serie televisive “orribili, perché disegnano degli stereotipi”, spiega Laffranchini, “I direttori vengono sempre dipinti come violenti, gli agenti come corrotti, le carceri come luoghi in cui accadono molte risse”. Tutti elementi “che danno un’idea completamente sbagliata del carcere”. Ed è per questo che il direttore “fatica a guardarle”.
I rapporti con i detenuti e “quell’equilibrio magico”
Un’altra domanda che può sorgere spontanea parlando di carceri è il rapporto che hanno guardie e direttori con i detenuti. “C’è un equilibrio magico che deve trovare una persona che lavora in carcere. Si tratta della giusta distanza che permetta di stare vicino alla persona detenuta in un momento difficile, ma anche della capacità di mantenere la propria autorevolezza per far rispettare le regole. Non è facile ed è una competenza difficile da apprendere”. Anche per questo, “nel percorso di selezione viene posto un accento molto importante su questa componente psicologica e sulla maturità dei candidati”.