“Tolleranza zero”

“Tolleranza zero”

Da www.rsi.ch/news
https://www.rsi.ch/news/ticino-e-grigioni-e-insubria/Da-condannare.-E-perseguire-10996049.html

 

Articolo pubblicato nell’edizione di giovedì 18 ottobre 2018 de La Regione

Gobbi: “Danneggiata l’immagine dell’esercito. Atto da condannare”
Nel pomeriggio di ieri il papà della recluta ha incontrato il direttore delle Istituzioni Norman Gobbi che, da noi raggiunto, spiega di «aver espresso gratitudine al padre che ha detto, pur deplorando il fatto, di aver fiducia nell’esercito e questo credo sia l’aspetto più importante». Proprio perché, continua Gobbi, casi simili “danneggiano l’immagine dell’esercito, il quale non ha alcun interesse che queste situazioni si producano”. Purtroppo, “essendo l’esercito composto da esseri umani, capita che qualcuno agisca senza ragionare ed ecco che si creano situazioni sì marginali, ma che non devono essere in alcun modo minimizzate”.
Visto che “danneggiano pesantemente un’istituzione che è elemento integratore della nostra comunità con più lingue e culture. Queste non sono immagini che rappresentano i valori del nostro Paese, e questi atti devono essere condannati” conclude Gobbi.

 

Articolo pubblicato nell’edizione di giovedì 18 ottobre 2018 de La Regione

“Da ora in avanti, chi subisce non taccia più”
“Per un mese si è tenuto tutto dentro. Non voleva farmi preoccupare. Posso solo immaginare il peso che ha dovuto sopportare”. D., il papà della recluta ticinese vessata a Emmen, ha lo sguardo triste e determinato assieme. La tristezza è dovuta all’umiliazione subita dal ragazzo, un 24enne descritto come “solare, tranquillo, con la sua cerchia di amici e la ragazza, non certo uno sfigato come questa vicenda potrebbe far pensare”; la determinazione viene invece dalla “grande occasione che ci si presenta ora, a più livelli. Il primo è che certe integrazioni di piccoli nuclei di reclute ticinesi (tre in questo caso) in contesti affollati da commilitoni di altre regioni linguistiche possano venire in futuro evitate. Il secondo è che aprendo il vaso di Pandora si parli da ora in avanti apertamente di circostanze simili per denunciarle con fermezza. Mai più deve accadere che chi subisce poi taccia”. D., sollevato dalle “centinaia di attestazioni di solidarietà che mi sono giunte dopo il servizio televisivo”, è reduce da un incontro con il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi: “Non apparteniamo allo stesso partito, ma devo dargli atto di grande prontezza e sensibilità. Gli stessi pregi che ho avuto modo di vedere nella Giustizia militare per il modo in cui ha reagito. Ci sentiamo sostenuti, e questo, adesso, è fondamentale”. Un sostegno che il figlio – ora come noto dislocato in Engadina – avrebbe avuto privatamente anche dal tenente della sua compagnia di Emmen: “Gli ha espresso la massima solidarietà e chiesto se avesse bisogno di sostegno psicologico. Avrebbe anche potuto smettere subito con la Scuola reclute, ma mio figlio ha rifiutato perché tutto sommato con gli altri ragazzi si trova bene. Si sono già tutti scusati per quanto avvenuto. Se vi sono stati soprusi, anche in precedenza, non è causa delle altre reclute, ma dello strano meccanismo che si crea quando v’è un intervento gerarchicamente vincolante di fronte al quale è difficilissimo reagire”. Ed è proprio quanto avvenuto il 14 settembre: “I ragazzi erano nel bosco – racconta D. – e giocavano fra loro a tirarsi noci e sassolini: niente di che. Poi è intervenuto questo graduato che ha preso mio figlio “dal mazzo” – ma avrebbe potuto scegliere qualcun altro, perché molti altri avevano le sue stesse responsabilità – per farlo diventare vittima di quella tremenda parodia del plotone d’esecuzione. Gli stessi suoi compagni ticinesi sono stati costretti a “lapidarlo” assieme agli altri. Dal video si vede chiaramente che in quel momento mio figlio non è più lui: teme, a giusta ragione, le possibili conseguenze fisiche”. Conseguenze che erano ben visibili sul corpo: ecchimosi e lividi su schiena e collo, ora spariti, contrariamente al ricordo di quanto subito.

“Mio figlio ha sempre creduto nell’esercito, e ci crede ancora”
“Eppure – ricorda il papà – nell’esercito mio figlio ha sempre creduto e crede ancora. Figuriamoci che dopo la visita di reclutamento aveva ricorso contro la decisione di destinarlo alla Protezione civile. Ottenendo poi la sua incorporazione. Ci credevo anch’io, quando avevo la sua età. Dopo 200 giorni di servizio, a causa di un incidente ero passato alla PCi, dove sono diventato comandante di compagnia con il grado di capitano. Ho sempre preteso il massimo rispetto per le reclute. E lo stesso criterio l’ho poi applicato a scuola nei confronti degli allievi (D. ha un ruolo di responsabilità in ambito scolastico nel Locarnese, ndr)”. Nell’immediato, mentre il ragazzo concluderà la sua Scuola reclute, la Giustizia militare ha dato a D. la possibilità di seguire il figlio nell’iter giudiziario: “Sì – dice il papà –, lo accompagnerò in questo cammino. Lo vedo sereno, adesso, perché finalmente si è liberato. Ma se avrà bisogno di me, io ci sarò”. Una brutta storia che però, vedi articolo a lato, non ha minato la fiducia nell’esercito.

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